Se
avessi potuto scegliere, io avrei voluto una voce fuoricampo
«Ehi tu, Dio!»,
gli avrei detto, «Non darmi tutte queste tette, dammi una voce
fuoricampo»
A
volte penso che tutto questo ammasso sia colpa di mio padre. Ho
evidentemente risentito della sua filosofia di sistemazione e
riutilizzo delle cose che gli altri pensano che si dovrebbero
buttare: per questo sono messa così.
Anche
se non è uno di quegli accumulatori seriali che vivono sepolti in
casa perché non riescono a liberarsi nemmeno della cenere delle loro
sigarette o delle bucce dei kiwi, posso dire con una ragguardevole
percentuale di verità che mio padre non butta mai niente: ha una
stanza molto grande, nel piano interrato che funge da garage nella
mia casa d'infanzia, in cui ha organizzato un sistema di
archiviazione delle cose passate – passate di moda, passate da
altri, trapassate da un chiodo o ripassate da una mano di vernice.
Valigie,
sci, canne da pesca, gli attrezzi da scarparo di nonno
Peppino, giacche con le spalline, quaderni delle elementari, una foto
enorme di Coppi che passa la borraccia a Bartali, mobili disastrati
che sostiene di voler ristrutturare e poi cose mie, di Oris e di mia
madre: roba che avevamo deciso di buttare ma che lui ha in qualche
modo salvato.
Mi
ricordo scene di: «Mamma, non è che hai degli orecchini verdi?»
oppure «Mi servirebbe proprio una pochette rossa!» o anche: «Oris,
l'ho data a te quella mia gonna plissettata grigia?», scene che
finiscono con mio padre che torna fiero dalla stanzona del piano
interrato con in mano quello che stavamo cercando: una specie di
borsa di Mary Poppins di una trentina di metri quadrati.
Per
questo, durante l'anno in cui non sono riuscita a trovare l'Estathè
Ice perché sembrava fosse distribuito solo nelle località di mare –
ma chiaramente non in quelle in cui sono stata io – ogni tanto mi
sono lanciata ad esprimere il mio desiderio davanti a lui, sperando
che sarebbe andato a scovarlo in garage. Invece niente: alla fine, il
ghiacciolo di Estathè che sognavo come compagno estivo me lo ha
portato Core, nel suo primo ritorno in Italia da quando vive a
Washington – lo so che è passata in un supermercato di Latina
prima di venire da me, ma mi piace pensare che quei brick slanciati
abbiano attraversato l'oceano.
Una
volta ottenuti, gli ho dovuto ricavare un posto nel mio freezer, che
non è molto grande, quindi ho dovuto spingere indietro i funghi
congelati, tirare fuori la bottiglia di Amaro del Capo e gestire una
torre di vaschette di vario tipo. In tutto quel trambusto, non ho
creduto che fosse davvero un grugnito quello che avevo sentito: in
una casa ci sono un sacco di rumori, mi sono detta. Il ghiaccio
scricchiola, le cerniere degli sportelli cigolano e Pezzetta
bofonchia, mi sono detta, e poi Oris è una radio a trasmissione
continua.
[«Non
ho capito, Oris!», «Ma infatti non sto parlando con te», «Ma ci
siamo solo io e te, in casa! Con chi stai parlando?», «Da sola, ok?
Posso avere la mia privacy?», «Certo che puoi, basta che utilizzi
quell'antico metodo in disuso che fa rimanere le cose solo nella tua
testa, credo si chiami pensare...»,
«Non la sopporto proprio», «Non così, Oris. Se fai così, ti
sento ancora...»]
Poi,
però, eccolo di nuovo. «Grrr. Sgrunt. Mmm...»: ha borbottato La
Cosa, sfruttando tutte le onomatopee a sua disposizione e allora ho
capito. Non avendo una stanza per lo stallo affettivo, l'accozzaglia
di viandanti passati e presenti, avventori saltuari o ospiti fissi
che affollano tutti i miei canali comunicativi, finiscono per
posizionarsi a caso all'interno della mia vita e così anche
stavolta: i mugugni venivano dal congelatore.
Mia
madre sostiene che alla base di queste presenze ci sia una specie di
premura masochista, che non riesco a non dare udienza a tutti i
pazzi, disagiati, depressi, ignavi, insicuri, mitomani, Tyler Durden,
Theon GreyJoy, Gregor Samsa o simili che incontro. Oris li chiama la
corte dei miracoli e, se mi permetto di minimizzare, asserendo che, in questi tempi
confusi, non è soltanto il quartiere emotivo della mia vita ad
essere mal frequentato, che i condotti empatici di tante persone sono
luoghi pieni di mendicanti che si fingono infermi per poi guarire di
miracoli improvvisi quando è il momento giusto, mia sorella diventa
categorica e mi dice: «Iris, il quartiere emotivo della tua vita è
un carruggio abitato da sciagurati e tragici accolli».
Improvvisamente:
«Ahhh!» ha urlato l'ammasso congelato di viandanti ed è uscito dal
freezer, spalancando lo sportello e iniziando una lenta ma
inesorabile marcia verso di me. Era fumante di gelo, con una
confezione da quattro Estathè Ice rivoltata sulla testa a mo' di
corona e una cartucciera di mini carote che non avrebbe esitato a
usare contro di me – essendo io stessa l'autrice di quei proiettili
vegetariani tagliati al coltello in maniera maniacale e perfetta, la
teoria masochistica di mia madre non è sembrata così priva di
fondamento.
Di
fronte a quella specie di Re della corte dei miracoli – una
Montagna che sarebbe piaciuta tantissimo a Cersei Lannister – ho
cercato di rimanere calma e, con le braccia sistemate a conca sui
fianchi che fanno sempre molto Basso Lazio, gli ho urlato: «Non mi
fai paura, specie di polaretto. Così come ti ho creato, adesso ti
distruggo...».
Ebbene
sì, l'abbiamo pensata e detta tutti questa cazzata, almeno una volta
nella vita: è il delirio di onnipotenza che Mary Shelley incunea
nella testa del dottor Frankestein quando gli fa confezionare La
Creatura; è il pensiero sopito che se l'Estathè non la smette di
occupare il suo spazio sugli scaffali dei supermercati con infidi
tentativi di essere qualcos'altro (pera e uva, fate sul
serio?) entri in sciopero e fai crollare il mercato nazionale; è
l'utopia ridicola che se il metabolismo ti è cambiato una volta può
cambiare di nuovo, «Questi chili come sono venuti se ne andranno».
Ho
pensato di poterlo combattere da sola quel mostro grottesco, ho
pensato che il processo di solidificazione della memoria si può
battere, che mi sarebbe bastato riuscire a spingere alla luce del
sole quel patchwork di storie insensate e rapporti malsani e lui si
sarebbe sciolto, liquefatto al calore della realtà.
Ero
pronta a giocarmi le mie mosse migliori ma, quando il Re si è
sentito sotto scacco, ha fatto qualcosa che non mi aspettavo: invece
di muoversi su un'altra casella, si è accasciato su una sedia. La
struttura ossessivamente molle del suo scheletro ha ceduto, le mie
frasi sono andate in putrefazione, il suo grugnito aggressivo è
diventato un lamento e «Grrr...», ha sussurrato, scuotendo la
testa. Poi si è lasciato andare, diventando una pozza di acqua
torbida sul pavimento della mia cucina.
Quando
Oris è rientrata a casa io avevo appena finito di asciugare tutto
quel liquido con il mocio, lo avevo strizzato in un secchio, separato
dalle carote, e lo stavo versando dentro un barattolo.
«La
corte dei miracoli...», ha detto Oris: «Lo sapevo. La fregano sempre.
Le gironzolano intorno, le scrivono in continuazione, la chiamano, le
chiedono cose, le fanno perdere un sacco di tempo: poi grugniscono,
lei si incazza, ci litiga, getta su di loro le più atroci
maledizioni, quelli piagnucolano e lei li raccatta, scolandoli da un
mocio in un barattolo. Ma che amarezza! Ma quanto è
antigienico tutto questo?».
«Oris,
stai parlando con me?», le ho chiesto.
«Privacy,
Iris. Lasciami la mia privacy».
Ho
preso dal freezer un Estathè Ice che non aveva nemmeno finito di
congelarsi e me ne sono andata in camera mia a riflettere sui
viandanti: è stato a quel punto che ho pensato che era tutta colpa
di mio padre e di quella stanza a fisarmonica.
«Oris,
l'Estathè Ice fa schifo», le ho detto quando si è presentata
davanti alla mia porta con in mano quel barattolo pieno di acqua
torbida. «Questi chili così come sono venuti se ne andranno», ho
aggiunto.
Quando
mio padre mi ha visto scendere dal treno con in mano un barattolo che
grugniva, mi ha chiesto: «Mica lo vorrai buttare?» e io gli ho
risposto: «Veramente sì».
«Dammelo,
te lo butto io».
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