Memorie di una bevitrice di Estahè

Memorie di una bevitrice di Estahè

venerdì 3 giugno 2016

La corthè dei miracoli

Se avessi potuto scegliere, io avrei voluto una voce fuoricampo
«Ehi tu, Dio!», gli avrei detto, «Non darmi tutte queste tette, dammi una voce fuoricampo»

A volte penso che tutto questo ammasso sia colpa di mio padre. Ho evidentemente risentito della sua filosofia di sistemazione e riutilizzo delle cose che gli altri pensano che si dovrebbero buttare: per questo sono messa così.
Anche se non è uno di quegli accumulatori seriali che vivono sepolti in casa perché non riescono a liberarsi nemmeno della cenere delle loro sigarette o delle bucce dei kiwi, posso dire con una ragguardevole percentuale di verità che mio padre non butta mai niente: ha una stanza molto grande, nel piano interrato che funge da garage nella mia casa d'infanzia, in cui ha organizzato un sistema di archiviazione delle cose passate – passate di moda, passate da altri, trapassate da un chiodo o ripassate da una mano di vernice.
Valigie, sci, canne da pesca, gli attrezzi da scarparo di nonno Peppino, giacche con le spalline, quaderni delle elementari, una foto enorme di Coppi che passa la borraccia a Bartali, mobili disastrati che sostiene di voler ristrutturare e poi cose mie, di Oris e di mia madre: roba che avevamo deciso di buttare ma che lui ha in qualche modo salvato.
Mi ricordo scene di: «Mamma, non è che hai degli orecchini verdi?» oppure «Mi servirebbe proprio una pochette rossa!» o anche: «Oris, l'ho data a te quella mia gonna plissettata grigia?», scene che finiscono con mio padre che torna fiero dalla stanzona del piano interrato con in mano quello che stavamo cercando: una specie di borsa di Mary Poppins di una trentina di metri quadrati.
Per questo, durante l'anno in cui non sono riuscita a trovare l'Estathè Ice perché sembrava fosse distribuito solo nelle località di mare – ma chiaramente non in quelle in cui sono stata io – ogni tanto mi sono lanciata ad esprimere il mio desiderio davanti a lui, sperando che sarebbe andato a scovarlo in garage. Invece niente: alla fine, il ghiacciolo di Estathè che sognavo come compagno estivo me lo ha portato Core, nel suo primo ritorno in Italia da quando vive a Washington – lo so che è passata in un supermercato di Latina prima di venire da me, ma mi piace pensare che quei brick slanciati abbiano attraversato l'oceano.

Una volta ottenuti, gli ho dovuto ricavare un posto nel mio freezer, che non è molto grande, quindi ho dovuto spingere indietro i funghi congelati, tirare fuori la bottiglia di Amaro del Capo e gestire una torre di vaschette di vario tipo. In tutto quel trambusto, non ho creduto che fosse davvero un grugnito quello che avevo sentito: in una casa ci sono un sacco di rumori, mi sono detta. Il ghiaccio scricchiola, le cerniere degli sportelli cigolano e Pezzetta bofonchia, mi sono detta, e poi Oris è una radio a trasmissione continua.
[«Non ho capito, Oris!», «Ma infatti non sto parlando con te», «Ma ci siamo solo io e te, in casa! Con chi stai parlando?», «Da sola, ok? Posso avere la mia privacy?», «Certo che puoi, basta che utilizzi quell'antico metodo in disuso che fa rimanere le cose solo nella tua testa, credo si chiami pensare...», «Non la sopporto proprio», «Non così, Oris. Se fai così, ti sento ancora...»]
Poi, però, eccolo di nuovo. «Grrr. Sgrunt. Mmm...»: ha borbottato La Cosa, sfruttando tutte le onomatopee a sua disposizione e allora ho capito. Non avendo una stanza per lo stallo affettivo, l'accozzaglia di viandanti passati e presenti, avventori saltuari o ospiti fissi che affollano tutti i miei canali comunicativi, finiscono per posizionarsi a caso all'interno della mia vita e così anche stavolta: i mugugni venivano dal congelatore.
Mia madre sostiene che alla base di queste presenze ci sia una specie di premura masochista, che non riesco a non dare udienza a tutti i pazzi, disagiati, depressi, ignavi, insicuri, mitomani, Tyler Durden, Theon GreyJoy, Gregor Samsa o simili che incontro. Oris li chiama la corte dei miracoli e, se mi permetto di minimizzare, asserendo che, in questi tempi confusi, non è soltanto il quartiere emotivo della mia vita ad essere mal frequentato, che i condotti empatici di tante persone sono luoghi pieni di mendicanti che si fingono infermi per poi guarire di miracoli improvvisi quando è il momento giusto, mia sorella diventa categorica e mi dice: «Iris, il quartiere emotivo della tua vita è un carruggio abitato da sciagurati e tragici accolli».

Improvvisamente: «Ahhh!» ha urlato l'ammasso congelato di viandanti ed è uscito dal freezer, spalancando lo sportello e iniziando una lenta ma inesorabile marcia verso di me. Era fumante di gelo, con una confezione da quattro Estathè Ice rivoltata sulla testa a mo' di corona e una cartucciera di mini carote che non avrebbe esitato a usare contro di me – essendo io stessa l'autrice di quei proiettili vegetariani tagliati al coltello in maniera maniacale e perfetta, la teoria masochistica di mia madre non è sembrata così priva di fondamento.
Di fronte a quella specie di Re della corte dei miracoli – una Montagna che sarebbe piaciuta tantissimo a Cersei Lannister – ho cercato di rimanere calma e, con le braccia sistemate a conca sui fianchi che fanno sempre molto Basso Lazio, gli ho urlato: «Non mi fai paura, specie di polaretto. Così come ti ho creato, adesso ti distruggo...».
Ebbene sì, l'abbiamo pensata e detta tutti questa cazzata, almeno una volta nella vita: è il delirio di onnipotenza che Mary Shelley incunea nella testa del dottor Frankestein quando gli fa confezionare La Creatura; è il pensiero sopito che se l'Estathè non la smette di occupare il suo spazio sugli scaffali dei supermercati con infidi tentativi di essere qualcos'altro (pera e uva, fate sul serio?) entri in sciopero e fai crollare il mercato nazionale; è l'utopia ridicola che se il metabolismo ti è cambiato una volta può cambiare di nuovo, «Questi chili come sono venuti se ne andranno».
Ho pensato di poterlo combattere da sola quel mostro grottesco, ho pensato che il processo di solidificazione della memoria si può battere, che mi sarebbe bastato riuscire a spingere alla luce del sole quel patchwork di storie insensate e rapporti malsani e lui si sarebbe sciolto, liquefatto al calore della realtà.
Ero pronta a giocarmi le mie mosse migliori ma, quando il Re si è sentito sotto scacco, ha fatto qualcosa che non mi aspettavo: invece di muoversi su un'altra casella, si è accasciato su una sedia. La struttura ossessivamente molle del suo scheletro ha ceduto, le mie frasi sono andate in putrefazione, il suo grugnito aggressivo è diventato un lamento e «Grrr...», ha sussurrato, scuotendo la testa. Poi si è lasciato andare, diventando una pozza di acqua torbida sul pavimento della mia cucina.

Quando Oris è rientrata a casa io avevo appena finito di asciugare tutto quel liquido con il mocio, lo avevo strizzato in un secchio, separato dalle carote, e lo stavo versando dentro un barattolo.
«La corte dei miracoli...», ha detto Oris: «Lo sapevo. La fregano sempre. Le gironzolano intorno, le scrivono in continuazione, la chiamano, le chiedono cose, le fanno perdere un sacco di tempo: poi grugniscono, lei si incazza, ci litiga, getta su di loro le più atroci maledizioni, quelli piagnucolano e lei li raccatta, scolandoli da un mocio in un barattolo. Ma che amarezza! Ma quanto è antigienico tutto questo?».
«Oris, stai parlando con me?», le ho chiesto.
«Privacy, Iris. Lasciami la mia privacy».
Ho preso dal freezer un Estathè Ice che non aveva nemmeno finito di congelarsi e me ne sono andata in camera mia a riflettere sui viandanti: è stato a quel punto che ho pensato che era tutta colpa di mio padre e di quella stanza a fisarmonica.
«Oris, l'Estathè Ice fa schifo», le ho detto quando si è presentata davanti alla mia porta con in mano quel barattolo pieno di acqua torbida. «Questi chili così come sono venuti se ne andranno», ho aggiunto.

Quando mio padre mi ha visto scendere dal treno con in mano un barattolo che grugniva, mi ha chiesto: «Mica lo vorrai buttare?» e io gli ho risposto: «Veramente sì».
«Dammelo, te lo butto io».

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