Se
avessi potuto scegliere, io avrei voluto una voce fuoricampo
“Ehi
tu, Dio!”, gli avrei detto “Non darmi tutte queste tette, dammi
una voce fuoricampo”
Qualche tempo fa, io e Oris abbiamo preso un treno regionale strapieno di gente, ma così pieno che, a spinta (di Oris, che è piccola ma insolente) siamo riuscite solo a entrare, posizionandoci all'inizio della carrozza, sugli scalini, con le porte che ci si chiudevano a un millimetro dal naso. Il treno ha accumulato un'ora e mezza di ritardo su un'ora e un quarto di viaggio, quindi, dopo tre ore che, in trenta, sfidavamo il concetto di spazio in tre metri quadrati, si sono aperte le porte (ovviamente sull'altro lato) e siamo riuscite a scendere.
Era domenica sera e
pioveva tantissimo; eravamo stanche e con un solo ombrello (il mio,
manco a dirlo) e Oris ha iniziato a insistere che voleva prendere un
taxi.
Siccome, alla fermata
dei taxi, c'era una fila lunghissima, io le ho detto di no, ma
siccome Oris sa che la mia è solo una fissazione, un tentativo di
boicottaggio (mentre lei ha un feeling speciale con questo mezzo di
locomozione -probabilmente perché non ha la patente), ha continuato a insistere,
dicendo che la fila sarebbe scemata in fretta. Discutendo e
camminando, siamo arrivate al capo della fila e, allora, il genio si
è impadronito di Oris.
«Facciamo le
indifferenti e passiamo davanti a tutti», mi ha detto tirandomi per
il braccio.
Decine di bottiglie di
Estathè caldo mi sono cadute addosso (è questo il modo in cui mi
indigno) e ho iniziato a urlarle che non ci si comporta così, che le
file si rispettano, che mi meravigliavo di lei, che se la facessero a
te una cosa del genere?
Allora Oris ha
incrociato le braccia e, siccome il genio non l'aveva ancora
abbandonata, lo ha detto, ha detto la frase che da quel momento è
diventata il simbolo di tutte le mie lotte inutili, delle mie prese
di posizione, delle mie manie, dei miei principi.
«Sai dove ti porterà
tutta questa moralità? Alla fermata del 360».
In taxi, eravamo meste:
io perché avevo urlato davanti alla stazione Termini e Oris perché
si era sentita una prepotente. Oris, di solito, è una persona molto
rispettosa, suppergiù con tutte le categorie umane tranne una, che
però, in quel caso, non c'entrava niente.
«Quindi lei mi sta
chiedendo di non fumare per la presenza di suo figlio in questa
stanza, però mi pare che quando ha deciso di procreare questo
bambino non è stato chiesto il mio permesso...» «Ti piacciono le
anatre? Beh, è una bella cosa, anche tu gli piaci: le anatre, sai,
mangiano i bambini» «Tua mamma non dovrebbe dirti le bugie, non
diventerai bella come Belen Rodriguez da grande: l'85% delle donne ha
la cellulite. Tua madre dovrebbe essere più realista»
E' molto ampia la
letteratura degli scontri di mia sorella con gli infanti che, a onor
del vero, la sfidano continuamente, forse per il fatto che ha
trent'anni ma sembra averne quindici e che è un incrocio tra una
Winx e una Bratz.
«No, Laura, non mi
vestirò come un cartone per animare la festa di tuo figlio»
Mentre eravamo in taxi,
ho aperto la mia borsa, ho bucato un brick di Estathè (da poco acquistabili al
supermercato nel nuovo formato singolo, viva l'individualismo) e mi sono
ricordata che anche noi siamo state bambine.
«Iiiriiis, sono la
voce della tua coscieeenza», mi diceva Oris nascondendosi dietro al
divano (io ovviamente ci credevo perché il mio desiderio di avere
una voce fuori campo era già vivo).
«Dimmi pure, voce
della mia coscienza»
«Sai cos'è
l'altruismooo?»
«Sì, lo so»
«Tua sorella,
poverinaaa, ha investito le cinquemila lire che vi ha dato la nonna
per comprarsi un mega leccaleccaaa e adesso non ha più nienteee...»
«E io cosa dovrei
fare?»
«Dovresti dividere i
tuoi soldi con leeeiii...»
Allora io, inquietata
da quelle vocali trascinate, mi facevo cambiare le mie cinquemila
lire ancora intere e dividevo i soldi per due, tanto i chupachups non
mi piacevano, i videogiochi costavano poco e avevo sempre il frigo
pieno di Estathè (anche se, ai tempi, ahimè, lo bevevo alla
pesca).
«Scusa per prima, non
volevo urlare», le ho detto quando siamo scese dal taxi.
«Non ti preoccupare,
lo so come sei fatta»
«E' pure un po' colpa
tua se sono fatta così. Ti ricordi quando eravamo bambine...»
«Dobbiamo metterci a
parlare di bambini adesso, dobbiamo litigare?»
«No, volevo solo
sapere se ti ricordavi di quando facevi la voce della mia
coscienza...»
«Io? Mai fatta una
cosa del genere. E poi, riguardo a prima, non era necessario che urlassi: non volevo veramente saltare la fila...»
Oltre ad avermi
insegnato a giocare a poker, a mangiare le arance a testa in giù e a
reagire agli schiaffi con placcaggi sul letto (i centimetri di
differenza, a un certo punto, hanno iniziato a farsi sentire), Oris
mi ha insegnato la coerenza nella menzogna, indipendentemente dal
tempo che è passato da quando la si è detta.
Mi immagino noi due,
tra cent'anni, vecchissime: lei fumerà ancora, dicendomi che non ha
ricominciato, che deve solo ricomprare i liquidi per la sigaretta
elettronica; io mi farò l'aerosol di Estathè per combattere
qualche forma di pneumopatologia che il fumo passivo mi avrà causato
e Pezzetta, arzillo scapolone, vivrà ancora con noi.
I lavoratori
socialmente utili ci chiameranno scocciati, intimandoci di andare a recuperare un
fastidioso Pezzetta, fermo a lamentarsi davanti ai lavori delle metro D (sì, tra
cent'anni saremo arrivati alla linea D, spero), e Oris digiterà il
numero del teletrasporto (suo nuovo mezzo di locomozione preferito).
Io nostalgicamente proverò
a dirle: «Ti ricordi quella volta che dovevamo prendere il taxi...»
e lei, scura in viso, mi interromperà.
«Sai dove ti porterà
questa tua fissazione per la memoria?»
«Sì, lo so», le
risponderò io. «Alla fermata del 360».
Nessun commento:
Posta un commento